Di generazione in generazione, spesso i migranti cambogiani finiscono per essere vittime di tratta. Ecco come GVC - Gruppo di volontariato civile cerca di prevenire storie di sfruttamento e schiavitù.


 

STORIE DI TRATTA     In quindici, stipati su un camion. Sono convinti di essere diretti a Poipet, al confine con la Thailandia. Ignorano il pericolo: sono certi che presto, finalmente, avranno un lavoro. E invece l’autista non si ferma. Oltrepassa la frontiera e punta dritto alla Thailandia. A nulla valgono le proteste: il camion frena solo 200 km dopo, nella provincia di Chonburi. E’ qui che K.C. e i suoi compagni di viaggio scopriranno di essere stati venduti come schiavi ad un thailandese per soli 50 euro. “Eravamo costretti a lavorare senza poterci fermare né mai poter dormire. Eppure, all’epoca, non ero consapevole di essere una vittima di sfruttamento” racconta K.C. durante il gruppo di auto-aiuto organizzato dall’ong GVC- Gruppo di volontariato civile per sostenere le vittime di tratta cambogiane e aiutare chi vuole migrare verso la Thailandia a comprendere quali siano i rischi della migrazione irregolare. “Ho lavorato ininterrottamente e per soli 100 baht al giorno, 2,5 euro al giorno, in una fattoria” continua. In tanti fuggono perché fiduciosi del fatto che il baht sia più forte del riel cambogiano. Ed in effetti la Thailandia è davvero un paese in cui, nonostante un momento di difficile transizione politica interna e il rallentamento delle esportazioni nel 2015, i trend dell’economia sono tornati a crescere, con un PIL che nel 2016 ha registrato +3.2%.

 

 

LA TRAPPOLA     Partito per avere un lavoro migliore, K.C. ha dovuto lavorare non-stop per cinque mesi solo per pagare il suo debito con l’uomo che l’aveva comprato e poter tornare a casa. Secondo i dati dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (OIM),  i  migranti cambogiani in Thailandia sono circa un milione ma si tratta di una cifra a cui sfuggono almeno una parte dei tanti migranti che attraversano il confine in modo irregolare. Il 20% vive l’esperienza della schiavitù e l’80%- soggetti al ricatto di trafficanti e imprenditori- subisce trattamenti degradanti e forme di sfruttamento. Se in Cambogia i lavoratori guadagnano in media 120 euro al mese, in Thailandia il salario minimo è più del doppio. Per questo un numero sempre crescente di cambogiani sceglie di attraversare il confine, spesso senza essere in possesso di documenti, finendo per vivere in condizioni di sfruttamento o per essere truffati dai broker – gli intermediari che dovrebbero organizzare il loro viaggio, fornendo loro documenti regolari.

 

 

DUE GENERAZIONI, LA STESSA SCELTA    Nonostante le tante esperienze negative, in molti tentano più volte di ripartire. Come K. C. che una volta tornato nel suo villaggio in Cambogia ha tentato di nuovo la fortuna. “Ero disperato. Lavoravo duramente ma non riuscivo a sfamare la mia famiglia. E così io e mia moglie abbiamo deciso di partire” racconta. Purtroppo, però, si affidano al loro vicino di casa, un broker che promette di organizzare il viaggio per 120 euro. “Abbiamo attraversato il confine senza essere in possesso di alcun documento e abbiamo iniziato a lavorare in una fabbrica che produceva tuniche e che ci pagava 4 euro al giorno- spiega-. Sfortunatamente, durante un’ispezione di polizia, siamo stati arrestati, spediti in un centro per migranti e rimpatriati, dopo tre settimane”. Al suo rientro a casa, sua figlia decide di ripercorrere le sue stesse orme e partire. “Mi ha chiamata in lacrime, dicendo che il suo broker le ha preso tutti i soldi e la ha lasciata da sola in Thailandia- racconta-. Non ci ho pensato due volte, dovevo salvarla, attraversare il confine e riportarla in salvo a casa”. Mentre lui e sua figlia cercavano di ritornare in Cambogia, però, sono stati arrestati dalle autorità thailandesi perché non erano in possesso dei documenti validi. 

 

 

LE AGENZIE     La disperazione di chi abita nei villaggi cambogiani è tale che il flusso migratorio non si arresta. O.A. racconta: “ho provato e riprovato ad attraversare il confine, affidandomi ad una agenzia che avrebbe dovuto occuparsi di trovarmi un lavoro e di reperire i visti necessari . Ma mi hanno fornito quello per i turisti e non per i lavoratori – spiega-. Così, sono stato arrestato e ho dovuto pagare la polizia affinché mi rilasciassero. Una volta raggiunta la Thailandia, però, ho scoperto che il lavoro che mi era stato promesso non esisteva”.
Anche se le agenzie di collocamento e le pratiche di brokeraggio sono state regolamentate dal governo cambogiano in collaborazione con l’International Labour Organisation, le truffe sono ancora tante. Per il numero di persone sfruttate, la Thailandia preoccupa la comunità internazionale in quanto occupa una bassa posizione nel ranking dei paesi impegnati nella lotta al traffico di esseri umani (TIER 2W nel 2016, nella classifica annuale del Dipartimento di stato americano). 

 

 

LA NORMATIVA     Per arginare il fenomeno della tratta, il governo thailandese ha da poco imposto con un regio Decreto sanzioni elevatissime e anni di detenzione sia agli imprenditori che ai migranti irregolari che lavorano alle loro dipendenze o che operano in settori riservati solo ai cittadini thailandesi. In Thailandia, ai lavoratori stranieri è già vietato l’accesso a numerose professioni quali la pesca e l’agricoltura e la pesca.  Sessantamila migranti irregolari, per lo più cambogiani e birmani, si sono visti costretti in una sola settimana a lasciare il paese in seguito al regio Decreto emesso il 23 giugno. Secondo le stime del Thailand Development Research Institute, ad andare via saranno in 300.000. Il provvedimento legislativo prevede sanzioni dai 400.000 agli 800.000 baht (dai 10 ai 20 mila euro) o da uno ai tre anni di carcere per tutti coloro che hanno alle loro dipendenze migranti non in possesso di documenti. Ancora più dure le conseguenze per i lavoratori provenienti dai paesi confinanti, spesso venduti e ridotti in condizioni di schiavitù: per loro, la legge prevede fino a cinque anni di carcere e dai 2.000 ai 100.000 baht di multa (da 50 a 2.500 euro). 

 

 

LE IMPRESE     E intanto in Thailandia a ribellarsi sono imprenditori e industriali secondo i quali l’esodo causato da questo decreto sta già colpendo alcune compagnie, che dipendono dalla manodopera proveniente dai più poveri Paesi confinanti. A Bangkok, alcuni dirigenti delle società di costruzioni affermano che l'80% dei lavoratori hanno abbandonato i cantieri. Anche i rappresentanti del settore ittico esprimono grande preoccupazione, affermando che i lavoratori stranieri sono essenziali per quasi 30mila barche.Per contrastare il fenomeno dello sfruttamento nel settore ittico, la Commissione europea ha emesso un cartellino giallo, dichiarandosi pronta a imporre il divieto di tutte le importazioni di pesce thailandese. “In molti si suicidano nelle barche in cui lavoravano anche per 22 ore di fila per cifre irrisorie, spesso lavorano senza essere retribuiti o vengono venduti da un peschereccio all’altro senza mai toccare terra" testimonia la cooperante di GVC che opera sul campo a Bangkok.

 

 

GVC     “Noi continueremo a lavorare per promuovere sia in Thailandia che in Cambogia l’adozione di leggi che siano rispettose dei diritti dei migranti” dichiara Dina Taddia, presidente di GVC. L’organizzazione, con una sede a Siem Reap e una a Bangkok, affianca da anni i migranti cambogiani con un programma di protezione volto a prevenire e sradicare le violazioni dei diritti umani nei confronti di chi emigra. “Nel mondo, 21 milioni di persone sono oggetto di lavoro forzato, sfruttamento sessuale e altre forme di abuso. Il 56% si concentra in Asia. E’ una delle industrie più redditizie al mondo, con un giro d’affari di 150 miliardi di dollari l’anno, guadagnati sulla pelle di donne, uomini e persino bambini- spiega Margherita Romanelli, responsabile per l’Asia di GVC-. E’ per questo che in Asia ci stiamo battendo per garantire i diritti di queste persone, che significa contribuire a lottare contro il dumping sociale ed economico che certe imprese fanno, una concorrenza sleale che, in una economia globalizzata, danneggia anche le nostre imprese e i diritti dei nostri lavoratori”. 

 


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