Nella Giornata mondiale dei popoli indigeni e in occasione del decimo anniversario della Dichiarazione delle Nazioni Unite sui loro diritti, uno dei rappresentanti del popolo Chipaya denuncia: “la nostra cultura rischia l’estinzione”. La storia inedita di Clemente che si impegna per dar vita a un albergo comunitario e per sviluppare nuove forme di turismo che aiutino la popolazione, anche grazie al sostegno garantito dal progetto di GVC – Gruppo di volontariato civile, in collaborazione con il Centro boliviano de estudios multidisciplinarios. 

CHIPAYA, LA CULTURA DEL POPOLO DELL'ACQUA RISCHIA DI SPARIRE   “La cultura e le tradizioni dei Chipaya potrebbero terminare nel giro di trent’anni: molti giovani già non parlano chipataku, nonostante a scuola si insegni insieme al castigliano. Oggi ci si veste con abiti occidentali, le costruzioni sono in mattoni con tetti di lamiera e non più fatte di terra, sabbia e paglia. Molti anziani rimangono ma i giovani emigrano. Alcuni tornano, altri no”. A raccontarlo è Clemente che, dopo essere migrato in Cile a causa dei cambiamenti climatici, è tornato in Bolivia ed è stato eletto dal suo popolo “Ilacata”. “E’ una carica che ti affida la responsabilità di occuparti della gestione agricola e politica del territorio. Il conferimento del titolo ha rappresentato un’occasione per dimostrare il mio amore per la mia comunità, per i Chipaya” spiega a Michele Pasquale, EU Aid Volunteer di GVC in Bolivia.

TURISMO COMUNITARIO NEL VILLAGGIO    Attualmente, Clemente è impegnato nella costruzione di un albergo che favorisca lo sviluppo di un’economia locale gestita dalle autorità indigene native. “La comunità Chipaya non capisce la situazione del pueblo, quali sono le sue reali potenzialità. Anche il progetto turistico dell’albergo comunitario può essere positivo – spiega- ma solo con una corretta consapevolezza. Sono necessari corsi per formare la comunità, per imparare e sviluppare competenze”. In Bolivia, GVC ha dato vita al progetto “Onas Soni – Hombres del Agua”, in collaborazione con il Centro boliviano de estudios multidisciplinarios con sede a La Paz, per consentire ai chipaya di sviluppare nuove forme di resilienza comunitaria. A causa del cambiamento climatico, la migrazione è da sempre stata parte integrante della vita del popolo. Quando ancora era poco più che un bambino, Clemente è partito per il Cile, dove ha lavorato per sei anni in un’azienda agricola che produceva vino. A 19 anni rientra in Bolivia, ma dopo poco riparte per la Valle de Elqui. “Mi ero abituato al pueblo di Rancagua. Mi sentivo più cileno che boliviano. Ho visitato tutte le città del Cile, da Iquique a Santiago- ricorda-. Qui ho imparato un mestiere, a guidare il camion così come i mezzi pesanti. All’inizio soffrivo molto ricordando i miei genitori. Ma poi ho fatto nuove amicizie e ho vissuto con persone che mi volevano bene”.

 

IL RITORNO DI CHI APPARTIENE AL PUEBLO               Presto, però, all’età di 34 anni, torna nella sua terra. E tra il 2004 e il 2005 si guadagna il titolo di “Ilacata”. In quegli anni, il suo popolo deve affrontare l’epidemia di febbre porcina, l’enorme quantità di plastica nel fiume Lauca, la scarsità di acqua. Lui si impegna sempre di più per la sua comunità. “Noi abbiamo sviluppato e seguito la tecnica tradizionale del controllo delle acque del fiume, per rendere il terreno sempre pronto per essere coltivato- spiega-. Tutto ciò sempre nell’ambito del trabajo comunitario, in cui sforzi e proprietà sono condivisi”. Insieme all’Alcaldia, costruisce mangiatoie per animali, canali, canali, argini. Poi, la volontà di dare vita ad un albergo comunitario e di sviluppare forme di turismo che aiutino a far conoscere e tutelare la cultura dei chipaya. Eppure, dice, “non conosco la Bolivia, solo alcuni luoghi. Ma sono stato in numerose città del Cile. Nonostante ciò, sono boliviano, del pueblo Chipaya”.


 

 

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