Se si è donna, migrante e bracciante, si è più soggetti alla discriminazione? A rispondere a questa domanda è “Lo sfruttamento lavorativo nelle campagne toscane: una prospettiva intersezionale di genere”, la ricerca condotta da WeWorld e Tempi Moderni che spiega, attraverso dati e storie, la complessità dei fenomeni di sfruttamento.

“Nessuno vuole lavorare così. Se lo fa è perché non ha alternative, perché vuole assolutamente lavorare e non ha nulla di meglio”. Inizia così il racconto di Beth (nome di fantasia), ex bracciante nigeriana nella provincia di Grosseto che ha scelto di parlare della sua storia raccolta nella ricerca “Lo sfruttamento lavorativo nelle campagne toscane: una prospettiva intersezionale di genere” che indaga le condizioni di vita e di lavoro delle donne straniere in alcune campagne della Toscana: la Val di Cornia, la Maremma grossetana, l’area rurale intorno ad Arezzo.

Lei è solo una delle tante donne migranti che abbiamo incontrato e a cui abbiamo scelto di dare voce per sviluppare una comprensione profonda del fenomeno ed avere un quadro delle vulnerabilità e i fenomeni di sfruttamento specifici di genere.

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Perché la Toscana?

La scelta della Toscana come terreno d’indagine, così come l’adozione di una prospettiva intersezionale di genere, rispondono all’esigenze di colmare le attuali lacune in termini di conoscenza del fenomeno e di politiche adeguate. In Toscana - ma si potrebbe dire lo stesso di molti altri contesti italiani e non - il settore agroalimentare non occupa soltanto un significativo ruolo economico ma assolve anche un’essenziale funzione sociale, culturale, paesaggistica e ambientale. Si tratta di un mondo rurale fatto di tradizioni e storie locali, di identità molto sentite e radicate; un mondo tutt’altro che chiuso, sempre più aperto verso l’esterno soprattutto attraverso il turismo regionale, nazionale e globale; un mondo che si sta orientando sempre più verso modelli industriali e capitalistici di business. Non a caso, la Toscana è prima in Italia per superficie agricola destinata alla produzione certificata: 70.000 ettari, pari all’11% del totale regionale. È, inoltre, la prima regione d’Italia insieme al Veneto per numero di riconoscimenti di qualità: 58 nella produzione di vino e 34 nell’agroalimentare. Nonostante l’eccellenza, la ricerca ha potuto verificare e ribadire che l’agricoltura toscana non è esente dal problema dello sfruttamento lavorativo.

Perché un approccio intersezionale?

“Quando ci interfacciamo al fenomeno dello sfruttamento dobbiamo parlare di intersezionalità – ha spiegato il ricercatore Federico Oliveri dell’associazione Tempi Moderni, Università di Pisa e di Camerino, curatore della ricerca - il genere ha un ruolo fondamentale che si interseca con la vulnerabilità che deriva dalla classe sociale-economica della persona sfruttata. Oggi lo sfruttamento non è un fenomeno legato all’arretratezza culturale, ma un sistema strutturato che riguarda anche le eccellenze, come la produzione agricola toscana. Spesso è mascherato perché le persone hanno contratti e buste paghe ma di fatto, quello che succede sul campo, non corrisponde: minacce e violenze, anche sessuali, non si evincono dai contratti ma è difficile convincere una persona sfruttata e vulnerabile a denunciare o condividere la propria storia. In quelle che abbiamo intercettato la scelta di migrare è anche una scelta di emancipazione: molte donne sono partite per ribellarsi alle dinamiche di genere che le volevano sposate e a casa. Chi vuole sfruttare, sfrutta anche la voglia di emanciparsi e a parità di lavoro le donne guadagnano meno”. 

In quanto straniere, razzializzate, donne, madri (potenziali o attuali), appartenenti a classi socialmente, economicamente e culturalmente subalterne, le donne sono più soggette a ricatti e pressioni che spingono le lavoratrici straniere in condizioni di sfruttamento. Il risultato finale è che le lavoratrici migranti hanno maggiori probabilità di subire violazioni dei diritti, abusi e maltrattamenti rispetto agli uomini, fino al rischio di diventare un corpo di proprietà del “padrone”.

Dalle interviste realizzate nelle tre campagne toscane è emerso che le braccianti straniere erano consapevoli di essere sfruttate, ma erano altrettanto consapevoli del loro stato di bisogno o, comunque, dell’assenza di alternative valide rispetto all’accettazione dello sfruttamento. Non a caso, hanno cercato un lavoro regolare e a norma di legge non appena ne hanno avuto l’occasione o quando il livello di sfruttamento si è fatto insopportabile.

“Non riuscivo a vedere il mio futuro in Nigeria dopo avere smesso di studiare. Mi sarebbe piaciuto riprendere gli studi, ma avevo bisogno di guadagnare qualcosa. Dopo aver lasciato l’università avevo lavorato, ma non trovavo niente di buono. Volevo essere indipendente. Per uscire di casa non volevo sposarmi – racconta ancora Beth – I caporali pachistani ci portavano nei campi e ci riportavano indietro a fine giornata con un furgone che portava fino 43 a 10-12 persone. Le persone venivano da diversi centri d’accoglienza. A volte facevamo il giro per passarli a prendere tutti. Il trasporto però non ce lo facevano pagare”.

Tutte le braccianti intervistate si sono lamentate dei ritmi estremamente sostenuti di lavoro, spesso accompagnati da rimproveri e minacce. Nei casi della Val di Cornia, i rimproveri erano accompagnati da epiteti razzisti come “animali” o “schiavi”. In altri casi, soprattutto nel Grossetano, non era neanche consentito di fare pause per bere o mangiare. Persino i bisogni fisiologici, espletati all’aperto, costituivano un problema.

I dati

I braccianti stranieri sono oggi più di 30.000 su un totale di circa 70.000 dipendenti, corrispondenti al 42,5% della manodopera agricola non familiare della regione: un dato molto rilevante, se si considera che gli stranieri costituiscono il 10,7% dei residenti totali della Toscana. Senza il loro contributo buona parte delle produzioni agricole locali sarebbe impossibile da portare avanti. In particolare la presenza di braccianti stranieri si concentra nell’ortofrutta, specie nelle fasi di raccolta e preparazione dei prodotti per la vendita, e in alcune aree vitivinicole. La manodopera straniera femminile ammonta a poco più di 4.600 unità, corrispondente al 6,5% circa del totale della manodopera dipendente: una quota contenuta ma non trascurabile, per altro in crescita nel corso dell’ultimo decennio. Naturalmente questi dati si riferiscono alla manodopera non familiare regolarmente dichiarata. Per avere un’idea delle reali dimensioni della forza lavoro bracciantile, i numeri uffici vanno aumentati in proporzione al tasso di irregolarità che, nel settore agricolo toscano, è stato calcolato nel 2018 intorno al 19% a fronte di una media italiana del 24,3%9.

In varie campagne italiane si riscontrano discriminazioni salariali sulla base del genere. A parità di orario e spesso anche di mansioni, gli uomini vengono pagati fino a un terzo e oltre di più e, a differenza dei compagni, le donne lavorano più spesso senza contratto. La doppia condizione di donna e di straniera colloca le braccianti migranti nel punto più basso della scala salariale.

La ricerca - presentata a Bologna il primo dicembre durante l’evento multistakeholder “Diritto al futuro: giovani, lavoro, transizione ecologica” realizzato all'interno dei progetti Azioni in Rete per lo Sviluppo Sostenibile finanziato dal Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica e il progetto Erasmus+ Greener Future finanziato dall’Unione Europea – rappresenta il terzo documento di una serie di studi dedicati a indagare i fenomeni di sfruttamento nell’agricoltura italiana da una prospettiva intersezionale di genere. Si è focalizzata l’attenzione sui modi in cui le differenze di genere interagiscono con lo status giuridico, l’origine nazionale, l’identificazione “razziale”, l’appartenenza culturale e la classe sociale per determinare le particolari condizioni di subalternità e discriminazione vissute dalle donne braccianti straniere.

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Photo credit: Alessandro Penso