“Dobbiamo continuare a lavorare per eliminare lo stigma e diffondere il messaggio che c’è vita dopo la diagnosi di HIV.”  Con queste parole la dottoressa Happy Pauliane, responsabile del centro sanitario del campo profughi di Musasa, ci racconta il lavoro nei campi profughi in Burundi dove con il supporto di partner locali, lavoriamo per fornire assistenza medica anche alle persone con HIV/AIDS.  

Lavoriamo in Burundi dal 1984 con progetti legati ad acqua, nutrizione, sviluppo socio-eonomico e salute. Nel 2017 abbiamo attivato un programma volto al rafforzamento dei servizi sanitari in cinque campi rifugiati per persone provenienti dalla Repubblica Democratica del Congo, garantendo assistenza sanitaria ad oltre 17.000 persone: alcune convivono con l’HIV/AIDS.    

In occasione della Giornata mondiale contro l’AIDS abbiamo voluto accendere i riflettori su un tema complesso, che porta con sè stigma e pregiudizi, intervistando Happy Pauliane Mwete, dottoressa responsabile del centro sanitario del campo profughi di Musasa e responsabile WeWorld per l'area di Muyinga e Ngozi, in Burundi. A lei abbiamo chiesto come vivono i pazienti e le comunità intorno.  

Ecco il suo racconto: 

“In passato, all’interno dei campi per rifugiati, si sono verificati diversi casi di discriminazione e molti rifugiati chiedevano che le persone con AIDS vivessero isolate e portare in disparte rispetto alle comunità. Mi è capitato di vedere un genitore vietare al proprio figlio di giocare con quello di un pazienta con HIV. Un giorno i piccoli sono sfuggiti al controllo dei genitori e hanno passato del tempo insieme. La famiglia si è recata allarmata al Centro sanitario chiedendoci di sottoporre il bambino a un test per verificare che non fosse malato. 

È in questi casi che ci prendiamo del tempo per intervenire con formazioni adeguate. I rifugiati, infatti, hanno partecipato a numerose sessioni di sensibilizzazione in cui hanno appreso le diverse modalità di contagio, i metodi di prevenzione, i trattamenti disponibili e hanno conosciuto cosa significa vivere con la malattia attraverso le testimonianze di altre persone. 

Oggi, con il passare del tempo e grazie a regolari campagne di sensibilizzazione, registriamo pochi casi di discriminazione nei campi; molti rifugiati hanno aumentato le loro conoscenze sull'HIV/AIDS e grazie al lavoro sul campo di tutti i partner, le persone con HIV sono state integrate in diverse attività professionali e culturali, migliorando la loro inclusione e riducendo la stigmatizzazione. 

La comunità oggi è generalmente attenta e solidale. 

Capita però che i primi a non accettare la malattia per la paura dello stigma siano i pazienti stessi. Queste persone a volte rifiutano le cure mediche presso il Centro sanitario e preferiscono essere curati in cliniche fuori dai campi.  

Eppure, i centri sanitari dei campi sono funzionanti e hanno le attrezzature mediche necessarie per lo screening, il trattamento e la prevenzione. Eseguiamo anche il test della carica virale dell'HIV per il controllo. All’interno dei centri di salute si riescono a fornire tutte le cure mediche secondo le raccomandazioni e il protocollo del Ministero della Salute.  

Bisogna continuare a lavorare per eliminare lo stigma e diffondere il messaggio che c’è vita dopo la diagnosi di HIV”.