Siamo preoccupati per la situazione attuale delle ragazze in Afghanistan. Dopo quasi 7 mesi di stop le scuole di secondo grado non hanno riaperto per le giovani donne. Il divieto di frequentare la scuola è una notizia terribile che mette a rischio il futuro di migliaia di ragazze”. È questo il commento di Stefania Piccinelli, Direttrice Programmi internazionali di WeWorld sulla mancata riapertura delle scuole secondarie per le ragazze in Afghanistan.

Lo scorso 23 marzo, infatti, le scuole di secondo grado del paese - cioè l’equivalente di medie e superiori per l’Italia – dovevano riaprire dopo uno stop di circa 190 giorni, dovuto dalla situazione politica del Paese. Una brutta sorpresa per le studentesse che invece, il giorno stesso, hanno trovato i cancelli chiusi e un avviso: “Classi secondarie chiuse fino a nuovo ordine”.

Avevamo accolto in modo positivo l’annuncio del ministero dell’Istruzione della riapertura degli istituti per le donne a tutti i gradi d’istruzione – continua ancora Piccinelli –. Oggi guardiamo con seria preoccupazione a questa chiusura che ricorda il primo regime talebano, quando alle ragazze dopo i 12 anni non era permesso studiare, lavorare fuori casa, guidare e muoversi senza un parente maschio che le accompagnasse”. 

In questi giorni di chiusura non sono mancate alcune manifestazioni che hanno visto le donne scendere in piazza a Kabul per chiedere il diritto allo studio. Sembra che uno dei limiti più grandi per il rientro delle donne a scuola a detta delle istituzioni locali sia la mancanza di un piano che permetta loro di frequentare rispettando quella che definiscono cultura afghana. Questo potrebbe comprendere l’essere sempre accompagnati da un uomo o l’uniforme da portare in classe, nonostante attualmente vi siano già classi ed orari separati per uomini e donne.

Lavoriamo in un contesto in cui l’educazione, invece di rappresentare un diritto, è diventata una rarità: quattro milioni di bambine e bambini afghani non vanno a scuola e mentre le prime si ritrovano a soggette a matrimoni forzati, i secondi sono spesso obbligati a lavorare nei campi – conclude Stefania Piccinelli – Non permettere alle donne che frequentano di continuare gli studi significa privarle di un futuro migliore, libero da violenze di genere”.