Il 15 gennaio 2015, un drone dell’offensiva statunitense, alla ricerca di terroristi di Al Qaida in Pakistan, attaccò il rifugio dove Giovanni Lo Porto, cooperante italiano, era tenuto in ostaggio da oltre tre anni, provocando la sua morte e quella di un altro civile statunitense, anche lui rapito.

L’annuncio pubblico venne dato dal presidente USA Obama solo molto tempo dopo, il 23 aprile, provocando reazioni e polemiche, fra l’opinione pubblica italiana ed internazionale, ma soprattutto molto dolore fra i familiari e amici di Giovanni. Alla perdita del loro caro, infatti, si aggiungeva la beffa crudele dell’informazione fornita dopo tre mesi, per mano di chi poteva e doveva liberarlo. E di essere annunciata come una specie di “danno collaterale”, eccezionale, di quella guerra “chirurgica”, portata avanti dai droni capaci di “selezionare” con precisione i propri obiettivi umani.

Ma la realtà è ben diversa, dichiara Margherita Romanelli, policy advisor di GVC e amica di Lo Porto, che aveva lavorato ad Haiti per l’ong bolognese. “Ormai sembra essere passato il concetto che la guerra fatta con i droni non sia proprio una guerra, ma un’offensiva asettica, quasi da videogame. Non è così. Le vittime sono reali, e sono molte”.

Stando infatti ai dati forniti dall’organizzazione inglese Reprieve, dall’inizio di questo programma della CIA i morti civili sono più di 4.000. Un po’ troppi. “La guerra, anche se fatta da robot, colpisce persone, civili, fatte di sangue e carne. Non dobbiamo dimenticarcelo soprattutto perché l’Italia ha da qualche giorno ottenuto il permesso dagli Stati Uniti di armare due dei droni impegnati in Iraq e nel mediterraneo nelle azioni per controllare gli sbarchi di migranti e rifugiati. Armare i due droni costa 130 milioni di dollari, quante persone possono essere aiutate con questi soldi attuando azioni di cooperazione internazionale per promuovere una maggiore equità tra i popoli, favorire i processi di pace, e creare condizioni in cui le persone non siano costrette a scappare affrontando barconi e l’agonia di un viaggio dell’ultima speranza verso l’Europa? E invece si privilegiano strumenti di guerra” continua Romanelli. “Giovanni lavorava contro le guerre e combatteva per un mondo migliore, e ci sembra giusto per la sua memoria richiamare l’attenzione su questa metodologia offensiva, di cui si sa forse troppo poco e quel poco non riceve la giusta attenzione.”

Inoltre, il prossimo 2 febbraio, anche la London Metropolitan University e il prof. Mike Newman ricorderanno Giovanni Lo Porto, ex studente, con un incontro commemorativo presso la sede di Londra che celebrerà la sua vita e il suo lavoro, alla presenza di amici e colleghi dall’Italia.

Verrà inaugurata una targa di commemorazione e resa pubblica la raccolta fondi per un premio a suo nome, Premio Giovanni Lo Porto, istituito dal Terra di Tutti Film Festival a ottobre 2015. La raccolta fondi, promossa da GVC e London Metropolitan University, è volta a finanziare anche nei prossimi anni il premio Lo Porto per video che promuovono i valori di solidarietà e rispetto per i diritti umani, la pace e la libertà, attraverso il racconto di uomini e donne che combattono contro la violenza e l’oppressione. Proprio come Giovanni.

 

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