Nell'XI Giornata europea contro la tratta, GVC ricorda le storie dei migranti ingannati dai trafficanti al confine tra Cambogia e Thailandia. La storia di S., nonna cambogiana partita con le due nipotine e venduta come schiava.


LA STORIA     Ridotta in schiavitù in una fabbrica di fertilizzanti in Thailandia. Venduta. Costretta a sollevare sacchi di 50 kg per pochi baht al giorno e di fatto tenuta in ostaggio dal suo datore di lavoro. S. è stata tradita da un trafficante che le aveva promesso un posto come venditrice ambulante oltre il confine. Impossibile tornare in libertà prima di aver pagato il debito con il broker che aveva organizzato il suo viaggio dalla Cambogia alla Thailandia. “Una notte, ho tentato la fuga ma una delle mie nipotine che ho dovuto portare con me è stata catturata. Così, sono tornata indietro a riprenderla e sono stata ammanettata e rinchiusa a chiave in una stanza”. A raccontarlo è una nonna cambogiana che, spinta dalla povertà, ha deciso di abbandonare il suo villaggio, nella provincia di Banteay Meanchey, nel nord-ovest della Cambogia, insieme alle nipotine di 8 e 11 anni. Arrivata in Thailandia, la scoperta di essere una delle vittime inconsapevoli della tratta. Oggi si racconta in uno dei gruppi di auto-aiuto organizzati sul campo dall’ong GVC – Gruppo di volontariato civile per sostenere le vittime di tratta cambogiane e aiut are chi vuole spostarsi in Thailandia a comprendere quali siano i rischi della migrazione irregolare: schiavitù e sfruttamento.
 
 
DI GENERAZIONE IN GENERAZIONE     “Mio figlio è un migrante, lavora da diverso tempo in Thailandia e ha dovuto lasciare a me le sue bambine” racconta S., una donna oltre la cinquantina, nata durante uno dei regimi più duri della storia del paese, quello di Pol Pot, che portò al governo i Khmer Rouge dal 1963 al 1997. Sopravvivere, nonostante il figlio inviasse a casa i risparmi e lei lavorasse come bracciante agricola nel periodo della semina, era diventato impossibile: non riusciva più a garantire alle nipoti cure sanitarie e scuola. Per questo è stata costretta a rivolgersi a uno dei tanti intermediari che si offrono di organizzare il viaggio verso la Thailandia. “Mi aveva promesso un viaggio sicuro e un lavoro poco faticoso” spiega. Ma la trappola era già organizzata. Insieme alle piccole, S. ha attraversato il confine su un mezzo di fortuna, passando attraverso la foresta, non molto lontano dal checkpoint di Poipet - fondamentale snodo del flusso migratorio tra i due paesi. “Ho provato a chiedere di cambiare lavoro ma mi è stato risposto che avrei prima dovuto pagare il mio debito con il broker - racconta-. Una notte, sono scappata ma l’uomo che mi sorvegliava mi ha scoperta ed è riuscito ad afferrare una delle mie nipoti. Sono tornata indietro e così ci ha catturate tutte e tre”. Spesso, infatti, le vittime sono sorvegliate da un “caporale”, un cambogiano cui i datori di lavoro affidano il compito di reclutare altri migranti tra i suoi stessi connazionali e che spesso prende accordi con i trafficanti. Per liberare S. e le due bambine, il figlio ha fatto di tutto, rivolgendosi all’Ambasciata cambogiana a Bangkok e alla polizia thailandese.
 
 
QUESTIONE DI FORTUNA?     A fare la differenza tra una storia e l’altra è solo il caso. “Sono andato in Thailandia a lavorare senza documenti – spiega O -. Un broker mi ha portato in uno zoo per lavorare. Il proprietario mi ha dato istruzioni precise su cosa fare se fosse arrivata la polizia thailande se- ha spiegato O. allo staff di GVC-. Al suo segnale, mi sarei dovuto nascondere vicino ad animali feroci e stare zitto. Un giorno la polizia è arrivata ma io ho avuto molta più paura di essere sbranato dagli animali. Mi sentivo però a posto perché il mio datore di lavoro si prendeva cura di me”. Dopo sei mesi di lavoro, O. ha deciso di tornare a casa ma è stato arrestato al confine dalla polizia thailandese, perché privo di documenti. “Sono rimasto lì per circa un’ora. Poi, mi hanno liberato perché il carcere era sovraffollato e volevano fermare altra gente” ha detto.
 
FUGGIRE PER SOPRAVVIVERE    Secondo i dati dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni, più di un milione di migranti, principalmente cambogiani, birmani e laotiani, lavora in Tailandia. Il 20% vive l’esperienza della schiavitù e l’80% subisce trattamenti degradanti e forme di sfruttamento. Se in Cambogia i lavoratori guadagnano in media 120 euro al mese, in Thailandia il salario minimo è più del doppio. Per questo un numero sempre crescente di cambogiani sceglie di attraversare il confine. “Gli abitanti oltrepassano spesso il confine per andare a vendere al mercato qui vicino in Thailandia ma nei mesi scorsi abbiamo avuto dei problemi perché vengono picchiati dal servizio di sicurezza del mercato” racconta XY, capo di un villaggio cambogiano. Durante gli spostamenti, i migranti raccontano di aver subito spesso discriminazioni e soprusi.
 
 
GVC IN CAMBOGIA     “Il confine è una groviera in mezzo ad una foresta. La migrazione è nel dna di quelle aree: già durante il regime dei Khmer Rouge molti cambogiani trovavano rifugio in Thailandia. Oggi, oltrepassarlo rappresenta un’occasione contro la povertà estrema. Una percentuale di cambogiani migra stagionalmente, a causa del ciclo produttivo delle risaie: c’è sempre un periodo morto di disoccupazione che impone ai lavoratori di spostarsi per sopravvivere” spiega Margherita Romanelli, responsabile per l’Asia di GVC.  "Noi continueremo a lavorare per combattere l’inconsapevolezza di tanti migranti cambogiani che spesso ignorano i pericoli in cui si incorre quando si ricorre alla migrazione irregolare in quelle aree” ricorda Dina Taddia, presidente di GVC.
 
Bologna, 17 ottobre 2017
 


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