Sam Jones, giornalista del Guardian, ha visitato i nostri interventi in Cambogia a sostegno dei migranti. Di seguito riportiamo il suo articolo pubblicato il 16 dicembre scorso dal giornale britannico.
Tre anni fa, preoccupato che il suo stipendio come costruttore non fosse sufficiente a mantenere la sua famiglia, Seuy San cominciò a pensare alle opportunità oltreconfine, in Tailandia.
Come per migliaia di suoi connazionali cambogiani, che emigrano ogni anno alla ricerca di un lavoro, la motivazione era semplice, ma di peso: “Ho sentito che in Tailandia ci sono lavori migliori e so che il bahts (moneta tailandese) è più forte del riels (moneta cambogiana, NdR), così decisi di andare”.
Quella decisione per poco non gli costò la vita. Dopo averne parlato con altri del suo villaggio che avevano fatto il viaggio prima di lui, San attese al confine per due giorni. Quando venne la notte del secondo giorno, oltrepassò il confine con la Tailandia e aspettò un'altra intera giornata. Alla fine, comparve un gruppo di uomini su un pick up enorme. “Usavano i loro telefoni cellulari come torce per vedere chi di noi fosse più robusto, poi ci fecero sdraiare uno sopra l’altro, ammassati sul retro” racconta San. “Eravamo schiacciati in tre strati, con i più grossi in cima. Eravamo in 20 circa, e ci misero sopra un telo di plastica dicendoci di non fare nessun rumore”.
Otto soffocanti ore dopo, il pick up si fermò nella foresta. San e altri 5 cambogiani vennero ammassati in una gabbia e rinchiusi, "così la polizia non vi troverà”. Dietro le sbarre, in una foresta sconosciuta, in una terra straniera, cominciarono le trattative. A San e agli altri vennero offerti 200 dollari al mese – molto di più di quello che avrebbero guadagnato a casa – per lavorare come muratori a Bangkok.
Accettarono, solo per scoprire immediatamente che avrebbero dovuto pagare ai loro intermediari 80 dollari per il trasporto verso la capitale tailandese, altri 80 per i documenti regolari, e 30 al mese per i beni di prima necessità.
Dopo aver lavorato per un mese, e resosi conto che non avrebbe mai guadagnato il salario che gli era stato promesso, San fuggì insieme ad altri – immediatamente si persero per la città. “Ho chiesto a un tassista di riportarmi in Cambogia” racconta San “gli ho dato 12 dollari ed è scappato via senza di me”. Disperato ed esausto, San si diresse ad una stazione di polizia. Se lo avessero arrestato come immigrato clandestino, ragionava, lo avrebbero deportato a casa. Ma, per l’ennesima volta, le cose non erano come sembravano. I poliziotti in realtà erano semplici guardie giurate che portarono San e un suo amico da un uomo che in teoria li avrebbe aiutati a guadagnare abbastanza soldi per tornare in Cambogia. Dopo due giorni trascorsi in una casa venne caricato su un container, che a sua volta venne caricato su un camion per quello che San pensava fosse un viaggio di 15 ore. Quando il container venne aperto, erano in un peschereccio in mezzo al mare. “Ho lavorato in barca per un mese, tirando le reti e raccogliendo il pesce” racconta.
“Le prime due settimane avevo ancora abbastanza energia per reggere, ma dopo aver dormito un’ora a notte non mi rimase nulla. A quel punto, quando eravamo stanchi, ci davano una polvere da sciogliere in acqua da bere. La sputai la prima e la seconda volta che me la diedero, ma poi si accorsero che non la bevevo e mi picchiarono. Sapevo che se non avessi preso la polvere, mi avrebbero ucciso. Non so cosa fosse, ma quando me la davano, ritrovavo l’energia e non avevo nemmeno bisogno di mangiare il riso”.
Il cibo e le droghe – probabilmente anfetamine –non erano però sufficienti per tutti quelli che erano a bordo. Un giorno, l’equipaggio perse la pazienza con un laotiano che era troppo malato per lavorare. “Lo gettarono in mare come esempio per tutti noi. Ero lì da un mese e pensavo che sarei morto. Dicevano che tutti i cambogiani sulla barca sarebbero morti”. Se il cuoco della barca non avesse avuto pietà e non li avesse aiutati a scappare una volta arrivati al porto successivo, San è sicuro che lui e i suoi amici avrebbero fatto la stessa fine del laotiano. Li aiutò la fortuna: dopo esser corsi via dalla barca ed essersi nascosti in un cespuglio, si imbatterono in un poliziotto (vero) che fu sufficientemente gentile da deportarli.
Anche se l’esperienza di San sembra eccezionale, non è affatto rara per i tanti cambogiani che ogni anno si dirigono verso la Tailandia alla ricerca di lavoro. Le stime parlano di un numero annuale di migranti che va dai 660.000 al milione. Senza diritto ai documenti, i lavoratori migranti sono facilmente oggetto di sfruttamento sessuale, lavoro forzato e altre moderne forme di schiavitù. Questi flussi dipendono anche dai cambiamenti politici: nel giugno dello scorso anno, 220.000 lavoratori sono fuggiti in Tailandia in preda alla paura per la forte repressione del lavoro illegale da parte della giunta militare cambogiana.
La migrazione è un fenomeno molto comune nel distretto di San, che si trova a circa un’ora dalla città di Siem Reap nel nord-ovest della Cambogia. Così comune che lui e altre due dozzine di persone si sono radunate all’entrata di un tempio per condividere le loro storie di traffico e migrazione. Il gruppo di sostegno fa parte di Migra-Safe, un programma di salvaguardia dei migranti realizzato da GVC – Gruppo di Volontariato Civile, ONG di Bologna. I partecipanti, seduti su materassini stesi ai piedi delle statue di Buddha, condividono le stesse ragioni per andarsene: non c’è abbastanza lavoro per mantenere le proprie famiglie e anche quando c’è, è occasionale e gli stipendi sono troppo bassi.
Gli uomini e le donne fanno a turno per condividere le loro esperienze, offrire consigli o anche solo un ascolto empatico. Molti, come San, si sono visti negare il salario promesso; altri si sono imbattuti nella polizia e si sono nascosti. Un uomo ha raccontato che era stato truffato dopo aver dato più di 200 dollari per un passaporto falso a Phnom Penh; una donna era stata multata con 500 baht (14 dollari circa) al giorno per trovarsi illegalmente nel paese.
Stefania Pirani, coordinatrice GVC del progetto Migra-Safe, afferma che lo scopo del programma non è scoraggiare l’immigrazione, ma informare le persone sui pericoli che potrebbero correre. “Le persone mancano davvero delle informazioni di base: vivono spesso in aree remote del paese ma tutti sanno che c’è lavoro in Tailandia” afferma. “La decisione di partire viene presa in un paio d’ore e quando le persone non hanno soldi, semplicemente prendono un taxi e oltrepassano il confine. Non sanno cosa sia o come sia fatto un passaporto”. Oltre a facilitare i gruppi di sostegno, il progetto informa le persone su come iniziare il lungo, dispendioso e complicato processo per ottenere un passaporto, fornisce informazioni e numeri di emergenza dell’ambasciata cambogiana in Tailandia. Pirani racconta che mentre gli sforzi di regolarizzazione tanto da parte del governo tailandese come da quello cambogiano hanno contribuito alla riduzione dei rischi a cui si espongono i migranti, c’è ancora molto da fare per rendere la migrazione meno pericolosa, più semplice ed economica.
I lavoratori cambogiani migranti in Tailandia non hanno bisogno solo di un passaporto, ma di un permesso di lavoro, una carta per il lavoratore e di un contratto. Sebbene il governo cambogiano abbia lanciato in giugno un pacchetto che offre ai lavoratori migranti tutta la documentazione necessaria – più trasporto al confine e cibo – per 49 dollari, il costo del lavoro legale rimane alto. “Come sappiamo dagli abitanti dei villaggi, è molto difficile ottenere un passaporto a quel prezzo dovuto alla mancanza di informazioni chiare e comprensibili, oltre che alla corruzione” continua Pirani. “Non è facile avere una stima del costo esatto dell’intero processo, ma sicuramente va dai 200 ai 500 dollari, e può durare dai 4 ai 6 mesi”. Il guadagno medio annuale in Cambogia è di circa 1000 dollari. Dovuto al costo, al ritardo e alla necessità di recarsi nella capitale Phnom Penh, aggiunge, molti cambogiani scelgono quindi di attraversare i confini illegalmente senza i documenti necessari.
Il progetto Migra-Safe è in corso da due anni e ha coinvolto circa 40.000 persone “Se le procedure diventassero più facili ed economiche, e ci fosse anche la possibilità di ottenere i documenti a livello provinciale, la maggior parte dei migranti diverrebbe regolare” aggiunge Pirani. “Il governo cambogiano dovrebbe inoltre rafforzare le leggi che già esistono per combattere il traffico umano e lo sfruttamento del lavoro, e rispettare le convenzioni Onu e i piani di azione che sono stati preparati insieme alle organizzazioni internazionali”. “La maggior parte delle volte, le buone iniziative e le leggi rimangono solo sulla carta e non vengono applicate”. “Ci sono certamente effetti positivi per l’economia della Tailandia, un paese che ha bisogno di forza lavoro dalle nazioni circostanti, più povere” dice “Nel medio-lungo periodo potrebbero esserci grandi benefici per l’economia cambogiana se ci fossero strumenti e politiche locali di reintegro in patria dei lavoratori specializzati”.
Fino ad allora – regolarmente o irregolarmente – la maggior parte dei partecipanti dei gruppi di sostegno hanno in programma di ritornare a lavorare in Tailandia. Non hanno molta scelta. Ma Seuy San non è fra loro: “Non voglio mai più tornare in Tailandia, anche se avessi i documenti legali”.
Traduzione italiana dell'articolo di Sam Jones pubblicato su The Guardian il 16 dicembre 2015. Per leggere l'articolo originale, clicca qui.
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