LE DONNE, LA VIOLENZA E IL VIRUS

 

Non si sfugge. Per le donne c’è sempre uno stereotipo. Per mancanza o per eccesso. Alla base dei vari DPCM, la casa dove tutti noi eravamo chiamati a restare, risultava essere: con spazi adeguati a far convivere familiari -reclusi senza dar corpo ad eccessi di isteria, dotata di pc e connessione stabile per fare la spesa on line – con una carta adeguatamente provvista di denaro. Ci si è dimenticati così dei tanti che non hanno esattamente questo tipo di situazione, e anche i tanti che non ne hanno neanche un lontanissimo simulacro: homeless, carcerati, migranti nei CAS o nei SIPROIMI o nei CPR.

Anche delle donne che dentro le loro case convivono – non da ora – con un partner violento. Le organizzazioni di donne che si occupano di questo sono insorte, e a dire il vero la Politica ci ha ascoltato: la senatrice Valeria Valente ci ha chiesto di comunicarle tutte le questioni da proporre in un maxi-emendamento al Cura Italia, che è stato quasi integralmente approvato dalla Commissione Femminicidio; anche le Ministre Bonetti e Lamorgese hanno intrapreso iniziative adeguate a dimostrare che l’interesse per la tematica della violenza di genere (una pandemia anch’essa, dati i numeri) non era obnubilata dall’allarme sanitario.
Bene.
Ma non del tutto.
Perché sul tema della violenza di genere c’è una forma di resistenza profonda, impermeabile, anche quando ci sono le migliori intenzioni e i più sinceri sentimenti di solidarietà perché coinvolge sfere profonde di ciascuno di noi: l’incontro, l’amore romantico, la relazione con la percezione di sé, il rischio che ciascuno si gioca o che ciascuno teme all’interno della sfera amorosa/affettiva. In tante e tanti si sono dunque ricordati delle “donne vittime di violenza”. E qui già possiamo trovare una traccia di questa, spesso inconsapevole e incolpevole, carenza di riflessione profonda sulla tematica

Nel discorso pubblico, ma anche nei ragionamenti dei più, pare che cancellare la parola “vittime” per sostituirla con “donne che subiscono violenza di genere” e, “sopravvissute a violenza” (quando il percorso di allontanamento è stato intrapreso) sia impresa impossibile alla maggior parte. Per questo impasse terminologico, evidentemente, c’è più di un motivo. Se la parola “vittima” è la sola esaurientemente descrittiva della vita di donne che sono anche cittadine, lavoratici, professioniste, elettrici, figlie, madri, sorelle, nonne significa che la loro collocazione in coppia con un uomo che agisce violenze (fisiche, psicologiche, sessuali, economiche…) è l’unica caratteristica che le contraddistingue. Schiacciate da un’unica identità, totalizzante.
In altri termini, sono donne ad una dimensione. Le loro storie di vita e di coppia appaiono tutte uguali. Incuranti della crudeltà che traspariva da ogni gesto del loro fidanzato, se lo sono tenuto. Sono dunque delle poverette prive di strumenti e di lungimiranza. E quindi sono vittime soprattutto di sé stesse. Come se fosse possibile pensare che una donna possa scegliere di fare coppia con un partner che, fin dal primo appuntamento, la riempie di botte. In vita mia ho incontrato migliaia di donne che volevano uscire dalla loro condizione di coppia, ma non ce n’è stata mai una che mi abbia raccontato di una relazione in cui quotidianamente, ogni minuto del giorno e della notte, subisse incessanti atti di violenza. Perché le storie non sono mai così.

Le storie iniziano con un sentimento e con un’attrazione, come per tutte e tutti, poi, si insinuano nel ménage meccanismi di controllo agiti dal partner. La violenza agita da lui arriva così, sulle rotaie comode degli assiomi universalmente assunti. Per esercitare il controllo sulla “propria” donna bisogna normarne i comportamenti, ed intervenire se questi deviano dal proprio desiderio, dalla propria visione del mondo. Per sentirsi sicuri del ruolo bisogna essere certi del proprio predominio e della propria presenza salda nella vita della partner. E dunque la gelosia è un motivo adeguato per sottoporre la donna a violenza se su quella fedeltà si nutrono dubbi; è anzi una dimostrazione del proprio amore. E dove sono diffusi questi assiomi così crudeli? Nella società civile tutta, nel percepito socialmente accettato, nelle differenze economiche, culturali, sociali e politiche ancora granitiche, nei meccanismi di autoidentificazione maschile e femminile che tuttora vengono percorsi, in mancanza di alternative, dagli adolescenti maschi e femmine. A fine 2019 Istat ha reso noto che l’adesione degli italiani a questi stereotipi e pregiudizi è ancora legata.

Durante questa emergenza lo stereotipo ha preso dunque il sopravvento. I tanti discorsi fatti erano infatti spesso privi dello sguardo ampio che bisogna avere su un tema come questo, che è sistemico, trasversale, complesso. Le situazioni nei contesti familiari in cui l’uomo agisce violenza sono infatti variegate, caleidoscopiche, innumerevoli. Come le persone, tutte le persone. Così, le donne non hanno chiamato i servizi antiviolenza per moltissimi motivi. Forse, dovevano organizzare lo spazio di una telefonata lontano dal controllo di lui. Forse, lo choc e la paura per la pandemia è diventato l’argomento maggiormente rilevante nella vita quotidiana. Forse, hanno sperato che il loro compagno migliorasse il proprio atteggiamento. Forse, in qualche caso, questo è accaduto davvero. Forse per (Pochi? Molti? Quanti?) uomini la scoperta della propria vulnerabilità ha avuto un effetto potente, che ha avviato un ripensamento sul proprio esser compagno, padre, maschio. Le donne non avevano solo bisogno di consigli su come accedere ai servizi per chiedere aiuto ed in effetti, dopo un primo calo delle chiamate, si sono attivate più che mai. Usando nuovi strumenti: whatsapp, messenger, sms, e-mail. Dimostrando che conoscono i media e sanno usarli, tutti, che magari sono delle professioniste in smart working e possono mandare messaggi con i vari mezzi di comunicazione senza che il partner stia sulle loro spalle come un gufetto, a controllarle.

Dimostrando che hanno bisogno di strumenti concreti: infatti è inutile, se non controproducente, spingere le donne ad uscire dalle loro case-galere se non si sa dove farle andare. Costringerle ad un gesto che può essere più difficile che mai, date le circostanze, senza poi poter offrire un’ospitalità alternativa a loro ed ai loro figli e figlie. Perché i posti nelle Case Rifugio gestite dalle associazioni di donne contro la violenza alle donne non ci sono. E non da ora. I posti per fuggire e intraprendere un percorso sono endemicamente insufficienti in tutta Italia: un decimo di quanto sarebbe necessario secondo i calcoli del Consiglio d’Europa che ne prevede uno ogni 10.000 abitanti (sono 680 sui 6.067 che sarebbero ritenuti adeguati). Speriamo che, accogliendo la lezione di questa terribile pandemia, molte cose nella politica nazionale e locale possano cambiare quando si comincerà l'opera difficile della ricostruzione. E che si possano dare risposte al fenomeno della violenza di genere che provoca morti in maniera costante da anni. Per esempio, dotando il paese di un numero adeguato di case rifugio, in un contesto di riprogettazione politica competente e trasformativa.

Oria Gargano, Presidente Befree – Partner WeWorld nel programma nazionale contro la violenza sulle donne