Per le donne cambogiane, lo sfruttamento è un anatema che si tramanda di madre in figlia. Spezzare questa catena, spesso fatta di semi schiavitù, diventa quasi impossibile. Eppure, tante madri come Sarom continuano a sfidare il destino in nome del futuro dei loro bambini. E scelgono di attraversare il confine con la Thailandia, in cerca di un lavoro. Spesso finiscono per fare lavori pesantissimi per pochi euro. O per non essere mai retribuite e lavorare alle dipendenze di chi è senza scrupoli. Lontane dai loro figli, non hanno altra scelta che continuare a resistere. La storia.

 

LA STORIA DI SAROM         “Il più piccolo dei miei figli non sta bene. Se me ne andassi, non so cosa potrebbe accadergli. I miei bambini sono tutti troppo piccoli per rimanere da soli e io voglio che vadano a scuola e che abbiano un futuro. Non voglio lasciarli da soli ma non abbiamo soldi e io sarò presto costretta a migrare di nuovo perché loro possano avere un avvenire migliore”. Sarom è ancora molto giovane. Ha solo 34 anni. Ma da generazioni vive il dramma della migrazione e dello sfruttamento. Madre di due bambini, è rimasta da sola in Cambogia. Suo marito è dovuto partire per la Thailandia e ora lavora in una industria che produce componenti elettronici. Viene pagato 7mila baht al mese, l’equivalente di 115 dollari. Invia tutto quello che ha in patria, alla sua famiglia. Difficile, però, sopravvivere in quattro con un salario simile. Per questo Sarom è certa che anche lei dovrà presto abbandonare il paese e staccarsi dai suoi figli, per cercare fortuna in Thailandia. Una fortuna che non è mai arrivata e che per molti non arriva mai. Nonostante i tanti tentativi, le aspettative vengono spesso, ripetutamente, deluse. E le esistenze di molti cambogiani non sono altro che dèjà vu di incubi vissuti e rivissuti continuamente. E’ questo che è accaduto anche a Sarom. All’età di 16 anni, è dovuta partire insieme alla sorella.

 

IN FUGA DALLA FAME         Nel 1998, infatti, una terribile siccità e poi una serie di alluvioni hanno sconvolto il paese. Il rischio era la fame per tutta la sua famiglia. Così, sua sorella non ha perso tempo: si è affidata a un broker che ha aiutato lei e Sarom ad attraversare il confine per andare a lavorare in una piantagione di zucchero in Thailandia. Lì, niente cibo per loro. Solo succo di barbabietola per tutto il giorno, nonostante il lavoro sui campi fosse durissimo. “Dopo poche settimane, è diventato davvero molto difficile continuare a lavorare in quelle condizioni. Eravamo così deboli che abbiamo deciso di tornare indietro e di cercare lavoro al confine”. Tornata in Cambogia, nonostante questa esperienza, Sarom è stata costretta a partire di nuovo, questa volta con sua madre. Finite a lavorare in una fattoria per soli 300 baht, 8 dollari al giorno, in realtà, ben presto hanno scoperto che non avrebbero mai ricevuto il loro salario. Per cinque mesi, non un solo baht. Poi, il datore di lavoro ha chiesto alla madre di Sarom di attraversare il confine, tornare al villaggio e reclutare altri lavoratori. Altra manodopera pronta a lasciare tutto e a finire per essere brutalmente sfruttata. Ma sua madre si è rifiutata di fare da esca per altri malcapitati. E invece ne ha approfittato per portare via da quell’inferno sua figlia e per scappare. Ma le storie in Cambogia non hanno mai un lieto fine. Anzi, mettere fine a questa concatenazione di eventi assurdi è quasi impossibile. Fuggite, Sarom e sua madre sono finite nelle mani di un altro sfruttatore disposto a pagarle solo 120 baht al mese, circa 3 dollari al mese. Non restava dunque che tornare in Cambogia. Sarom, però, ha due bambini e non può arrendersi, nonostante questa catena infinita di esperienze al limite della schiavitù.

 

I FIGLI SOLI          Troppe madri come lei, nelle aree rurali della Cambogia, non sanno come trovare una via di uscita. Quasi il 50% della popolazione cambogiana ha meno di 25 anni e, alle spalle, tantissimi tentativi di migrazione finiti per diventare dei veri e propri incubi. Più dell’80% dei migranti invia i suoi guadagni alle famiglie rimaste in patria. Donne come Sarom vengono identificate come “coloro che vengono lasciate indietro”. Ma cosa accade ai loro figli? Alcuni partono con i genitori. Altri, la maggior parte, rimangono da soli in Cambogia. Affidati alle loro nonne, spesso vengono trascurati, non hanno la possibilità di frequentare la scuola e di studiare e sono esposti a abusi e violenze sessuali. Sebbene le loro nonne li amino molto, sono anch’esse costrette ad andare a lavorare nei campi per sopravvivere e non hanno altra scelta che lasciarli da soli per la maggior parte del tempo. GVC, però, da tempo opera per informare i migranti e renderli consapevoli di ciò che rischiano, affidandosi a chi li inganna. Tra le varie attività, ad esempio, organizza dei gruppi di auto aiuto durante i quali le famiglie di chi ha vissuto l’esperienza dello sfruttamento e coloro che vogliono partire possono scambiarsi informazioni e raccontare le loro storie. Per questo Sarom è diventata Ambasciatrice sociale di GVC in Cambogia e continua a raccontare la sua esperienza, perché insieme si possa trovare una via di uscita.

Bologna, 08 05 2018

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